Pubblico la Lettera che mi è stata inviata da Paolo Lidestri.
I contenuti ed i messaggi credo siano di notevole rilievo per me e per tutti i giovani di Tusa.
Grazie Paolo
tChNu
Caro Giuseppe,
ho appena letto il post di Domy, e ancora una volta viene espresso un moto di fastidio per la trattazione di una delle questioni più importanti per la vita di un comune: appunto i risultati elettorali per la sua compagine amministrativa. Anche con Antonino avevo avuto modo di scambiare qualche parola a Tusa, e il leitmotiv sembra essere lo stesso: basta con la discussione sulle elezioni, concentriamoci sui giovani e sul futuro (abbozzo grossolanamente, ovviamene).
Ora, tu sai benissimo che io ho cercato, subito dopo le elezioni, di incanalare la discussione sul «che fare» del nostro tempo, e a tal proposito ho inviato una lettera a Carmelina Patti nel tentativo di evitare le recriminazioni che potevano esserci dall’una e dall’altra parte, facendo salva la buona fede di ognuno, per vedere se era possibile rinserrare le file, pur nella mutata e per certi versi più difficile situazione politica che ci veniva consegnata dal risultato elettorale.
Ti ho pure detto che la risposta di Carmelina è stata di ben altro tono, miope e risentita oltre ogni immaginazione (quando parlo di questo con Luciano, gli sembra una follia che da quel versane non solo manca un minimo di riflessione autocritica ma ci si ostina ad addossare agli altri la ragione della propria sconfitta), e solo uno scambio di vedute a tu per tu ha potuto permettere di comprenderci un po’: dell’una e dell’altra lettera ti invio copia, con preghiera di farle pervenire a Domy: forse comprenderà quanto sia difficile uscire dal pantano in cui ci si trova.
Io penso che sia un errore cercare di esorcizzare i problemi, come se così facendo si potesse davvero compiere il salto che ci serve. Non c’è alcun futuro positivo davanti a noi, se le principali forze che dovrebbero scriverlo marciano divise e non si risparmiano colpi bassi. In questo clima, che cosa ci dovrebbero guadagnare i giovani? E, poi: dove stanno questi giovani tanto vogliosi di mettersi in gioco e di fare la propria parte? Davvero niente possono fare per indurre i meno giovani a darsi una regolata?
Ecco, io credo che se questi giovani esistono, essi devono assumersi la responsabilità e la fatica di dimostrarlo, di sapersi mettere assieme di più e meglio di quanto non abbiano saputo e sappiano fare i loro genitori, di saper mettere da parte beghe personali e piccoli interessi particolari; insomma, devono saper dare prova di far vivere loro, nel loro impegno associato e seppure in nuce, il modo nuovo di fare politica della nuova società a cui tanto (sempre che, davvero, vi) aspirano.
Quelli come me (contrariamente a quanto pessimisticamente pensa Domy, con ancora in testa tanti ideali e tante speranze), sono partiti, appena adolescenti, proprio così, costruendo quel che non c’era ancora o non c’era più (io e mio cugino, per esempio e a soli 11 e 12 anni, la FGCI), cercando di dare con l’esempio il senso pieno delle parole che si sentivano di spendere a nome e per conto dei più svantaggiati. E così a Prato, ad anni ormai raddoppiati, mi presi la briga di alimentare una poderosa battaglia, facendo leva sulla fabbrica in cui lavorava mio cognato Enzo (che per quella ragione perse il lavoro), per il punto unico di contingenza (quella «famigerata» scala mobile, cioè, che per più di un decennio ha consentito a diverse centinaia di migliaia di famiglie di lavoratori di farsi una casa). E potrei continuare con qualche analoga iniziativa, spesso solo contro tutti, per alcune vicende relative ai lavori autostradali, a noi più vicine. Tra queste, anche quella del Tabulario che ben conosci.
Quel che voglio dire è che non ci sarà nessuno ad apparecchiare la tavola per i giovani, meno ancora ad imbandirla secondo i loro gusti. Se hanno voglia e passione, essi devono sapersi conquistare lo spazio a cui ambiscono, mettendoci tutto il tempo che un impegno di questo genere pretende e rifuggendo la tentazione (il fastidio contro l’approfondimento delle questioni in campo, ne è chiara espressione) di passare dalla scorciatoia della superficialità (quando non dalla rimozione dei problemi più spinosi), con la pretesa di fare prima.
Per essere più concreti. Mettiamo che questi nuovi giovani si trovino a doversi esprimere sul Piano regolatore generale; come si comporteranno, lo leggeranno tutto con assoluta attenzione per poi dare un consapevole giudizio di merito oppure, a seconda dei casi, lo approveranno o lo respingeranno senza neppure leggerlo perché troppo lungo? E se gli fosse chiesto di preparare delle proposte per correggerlo e migliorarlo, lo farebbero studiandoselo punto per punto oppure alla rinfusa, tanto per scrivere qualcosa?
Ecco, Giuseppe (e Domy), noi siamo proprio in questo frangente: dal Piano regolatore può dipendere un importante input per una proficua fase di sviluppo della nostra realtà sociale o, all’opposto, la continuazione indisturbata delle tradizionali pratiche di saccheggio e/o di sconvolgimento del nostro particolare assetto urbanistico e produttivo. La stessa cosa vale per le barriere soffolte e per tutti quegli interventi e quelle opere che nulla hanno a che fare con i bisogni sentiti dalla gente comune, a partire dall’acqua, dai parcheggi, dalla vivibilità complessiva della nostra cittadina, la quale non a caso stenta ad approssimasi agli standard di vita e di benessere della moderna civiltà contemporanea.
Per tutto questo ci vuole un di più non l’assenza di politica (come amava dire don Lorenzo Milani: «I Care», cioè, il contrario del motto fascista «Me ne frego»), al suo più alto livello di espressione e di coerenza. Sapendo però che il domani non si potrà costruire se non con gli uomini d’oggi, con i loro tempi, i loro difetti, le loro contraddizioni. Se si vuole contribuire a renderli migliori, bisogna partire da qui, da quello che concretamente c’è, ora e subito e con un po’ di minor puzza sotto il naso.
Bacioni,
Paolo