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martedì 10 novembre 2009

C’era una volta una spiaggia


Un giorno Bertrand Russell, il grande filosofo inglese del novecento, scrisse che tutta la filosofia occidentale in fondo altro non era stata che “una nota a margine di Platone”. Non abbiamo le competenze specifiche per confermare o confutare un’affermazione così impegnativa, che riduce tutto il pensiero filosofico europeo, da S. Agostino a Karl Popper, ad una mera rielaborazione accademica dell’autore del Simposio e della Repubblica, ma possiamo tuttavia prenderla in prestito per spiegare (a noi stessi, innanzitutto) il perché in Italia e in Sicilia si continui testardamente a perseguire, nelle scelte amministrative e nei comportamenti dei singoli, strade che portano soltanto al deturpamento delle bellezze naturali e al dissesto del territorio.

Dunque, non di note a margine a Platone vogliamo parlare ma di note a margine ad Attila, con la differenza che Attila distruggeva e basta mentre i moderni barbari distruggono costruendo.

Per limitarci alla nostra isola, basta infatti osservare la condizione in cui versano attualmente i beni paesaggistici, in particolare i boschi e le coste, con agglomerati umani o industriali che in questi ultimi 40 anni, come escrescenze dalla proliferazione inarrestabile, hanno invaso senza ritegno gli spazi della natura, sventrando colline, soffocando i greti dei fiumi e dei torrenti, stendendo un sudario di cemento sui chilometri e chilometri di litorale che erano il vanto e il fiore all’occhiello della Sicilia.

Se degli astronauti potessero guardare dall’alto di una ipotetica navicella spaziale il territorio siciliano prima e dopo la cura, probabilmente non ci porremmo più domande sulle cause di tragedie come quella di Giampilieri, essendo chiare le responsabilità dell’uomo su un evento che appena qualche decennio fa non avrebbe provocato di certo le macerie e le morti dello scorso due ottobre.

Lo scempio del patrimonio naturale isolano è, com’è ormai noto, il risultato di un intreccio inestricabile di interessi, negligenze e superficialità di privati cittadini e pubblici funzionari.

L’uzzolo irrefrenabile di modernismo ed un malinteso senso di paternità ha portato i primi ad abbandonare, nel secondo dopoguerra, le dimore avite e a pretendere di disseminare scriteriatamente il territorio di calcestruzzo per assicurare un tetto confortevole a se stessi ed alla propria discendenza, al grido di battaglia di “una casa per ogni figlio”. Senza regole e senza limiti, trasgredendo allegramente le prescrizioni urbanistiche e di piano e le norme in materia antisismica.

Case dalla volumetria incontrollata, costruite senza curarsi della destinazione delle aree, dei vincoli e delle distanze legali; case, tra l’altro, costruite spesso con sabbia sottratta alle spiagge e, quindi, con modalità doppiamente criminali: per il danno all’ambiente che si è causato e per la sicurezza delle stesse abitazioni, essendo notorio l’effetto corrosivo che la sabbia marina produce sulle intelaiature di ferro.

Ma tutto questo non sarebbe potuto accadere senza la colpevole assenza o connivenza dei pubblici poteri, ossia di coloro che avrebbero dovuto impedire il saccheggio. I comuni dell’isola non hanno mai brillato per politiche del territorio sagge e rispettose delle leggi e dell’ambiente. Il mattone è stato e continua ad essere in Sicilia soprattutto un grande “affare” ed un formidabile strumento per calamitare e gestire consenso politico. Leggi nazionali e regionali volutamente ignorate, piani regolatori (quando esistenti) vaghi e imprecisi, suscettibili di prestarsi alle più svariate (ed elastiche) interpretazioni, varianti approvate con compiacenti maggioranze trasversali per secondare gli scopi di palazzinari e speculatori tanto avidi quanto preziosi, per la politica, in termini di voti e di aiuto alle carriere. Nulla sembra essere cambiato dai tempi dell’impero romano, quando i maneggi e le buone entrature nei pubblici apparati dei grandi imprenditori edili riempivano la capitale dell’impero di insulae (i condomini dell’antica Roma, veri formicai stipati fino all’inverosimile di poveracci e innalzati in fretta e con materiali scadenti), sempre più alte e affollate.

Se a tutto questo aggiungiamo le penetrazioni tentacolari della malavita organizzata, che nell’edilizia ha sempre trovato una lucrosa fonte di investimento e di riciclaggio dei propri proventi illeciti, stupisce come finora Giampilieri sia rimasta, per fortuna, un caso isolato.

Ma fino a quando la tragedia di Messina resterà un episodio senza repliche? Il territorio isolano è al collasso e il trend meteorologico segnala che in Sicilia si sta invertendo la tendenza degli ultimi vent’anni ad avere autunni soleggiati, con temperature primaverili e scarse precipitazioni. Ammettiamolo: noi siciliani ci eravamo quasi dimenticati che settembre, ottobre e novembre sono la nostra “stagione delle piogge”. Le mareggiate e i frequenti nubifragi dell’ultimo triennio, invece, dovrebbero metterci sull’avviso che qualcosa sta cambiando, che l’isola sta tornando ad avere, come nel passato, stagioni autunnali degne del loro nome.

Il punto è, però, che un autunno che si rispetti, con tutto il suo carico di piogge e freddo, forse noi oggi non possiamo più permettercelo, perché il nostro uso sconsiderato del territorio rischia di trasformare in ogni momento un banale acquazzone in un diluvio universale.

Appare emblematico, a questo proposito, ciò che sta accadendo a Tusa Marina. Malgrado le voci dissonanti che nel recente passato si erano levate, con tanto di prove documentali attestanti gli effetti perversi di simili opere di contenimento, contro la balorda iniziativa del comune di collocare sul fondo del mare antistante la spiaggia le famigerate “barriere soffolte”, ossia dei grandi massi che, a detta degli estimatori, avrebbero dovuto proteggere la riviera dalle burrasche, l’autorità locale nel 2006 ordinò la posa di decine e decine di blocchi di cemento che oggi, a distanza di appena quattro anni, hanno eroso irrimediabilmente larga parte dell’arenile, mettendo in pericolo addirittura le abitazioni più prossime al mare.

L’avevamo detto e l’avevamo scritto: sarebbe bastato confrontare, foto alla mano, il prima e il dopo di spiagge a noi molto vicine, come quelle di S. Agata o di Patti, per scartare senza appello una soluzione, quella delle soffolte, mille volte peggiore del male che avrebbe dovuto debellare.

Non vogliamo qui insinuare che la scelta sia stata dettata da motivazioni diverse da quelle suggerite dalla necessità di un intervento pubblico a tutela della pesca e dei suoi operatori. Ma che quella scelta, in buona o in mala fede, sia stata una scelta sbagliata e controproducente è ormai sotto gli occhi di tutti: la spiaggia di Tusa Marina sta letteralmente scomparendo, stagione dopo stagione, e la causa della sua inarrestabile agonia non può che essere la posa di una barriera artificiale che impedisce il fisiologico scambio delle acque, alterando innaturalmente i delicati equilibri dell’ecosistema marino.

Ecco allora che la tutela dell’ambiente, da tema di nicchia riservato a pochi ingenui idealisti amanti del verde e della natura, diventa drammaticamente un tema di interesse generale, che non involge soltanto l’estetica violata di un territorio ma la sicurezza stessa delle gente che ci vive.

Cosa si può fare a stalla aperta e buoi scappati? L’ordinamento offre oggi strumenti legislativi in grado di consentire ad una collettività di intervenire adeguatamente a tutela del proprio patrimonio ambientale e, conseguentemente, della propria incolumità.

Si pensi innanzitutto all’accesso alle informazioni ambientali, disciplinato dal D.Lgs. nr. 195 del 19-08-2005, che, diversamente dalla disciplina generale dell’accesso agli atti amministrativi di cui alla legge 241/90, consente a tutti i cittadini (non solo, dunque, a chi ha un interesse diretto,concreto e attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata) di accedere a tutti i documenti e persino (anche qui contrariamente all’accesso agli atti amministrativi) a tutte le informazioni in materia ambientale detenute da un’amministrazione pubblica.

Si pensi ancora alle norme contenute nel D.Lgs 3 aprile 2006 nr. 152, cd. T.U. sull’ambiente, che facultano, oltre alle regioni, alle province autonome e agli enti locali, anche le persone fisiche o giuridiche che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante a presentare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, previo deposito presso le Prefetture-Uffici territoriali del Governo, denunce e osservazioni concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l'intervento statale per la rimessione in pristino, dello stato dei luoghi o, in alternativa, per il risarcimento in forma specifica (art. 309)

Il successivo art. 310, poi, legittima tali soggetti ad agire per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni del decreto stesso o avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell'ambiente e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale. A loro volta, le associazioni ambientaliste possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi (art. 18, comma quinto, legge 8 luglio 1986, nr. 349).

Si ricordi, in proposito, che l’art. 300, primo comma, definisce danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima e che, ai sensi del successivo art. 311 e ferme restando le eventuali responsabilità penali, chiunque arrechi, anche colposamente, un danno all'ambiente è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.

Come si può notare, i mezzi in fondo ci sono, mancano forse ancora in certe aree del Paese, come la nostra, la coscienza e la volontà collettive di reagire e di costringere i privati e le amministrazioni a mutare le proprie condotte e a considerare il bene-ambiente come un valore assoluto che nulla e nessuno dovrebbe permettersi di vulnerare, pena lo scadimento della qualità di vita di coloro che risiedono in un determinato territorio e la messa in pericolo dello loro stesse esistenze.

Francesco Caruso, 6/11/2009

1 commento:

pinkauro87 ha detto...

Al giorno d'oggi l'ambiente è visto come un problema piuttosto che una risorsa. Comunque la questione è solo una: le risorse del nostro pianeta sono limitate e la natura si è adeguta, pensiamo al ciclo dell'acqua. Anche la materia morta viene riutilizzata dopo essere stata degradata e trasformata in sostanze inorganiche che possono poi essere di nuovo utlizzate, per esempio dalle piante. Tutto è un ciclo, mentre noi utilizziamo le risorse secondo uno schema a catena aperta in cui c'è un input e un output. Questo sistema non è sostenibile. Tutto si ricoduce al concetto di sviluppo sostenibile: è uno sviluppo che consente di soddisfare i bisogni attuali senza compromettere il soddisfacimento di quelli delle generazioni future. Dopo la crisi anche questo modello di capitalismo entra in crisi. L'uso sostenibile delle risorse non si riferisce solo ad acqua ed energia ma anche e sopratutto al suolo. L'ecosistema città ha bisogno di una certa naturalità che lo circondi per renderlo più vivibile.
BASTA ALLA CEMENTIFICAZIONE SELVAGGIA!!!